domenica 19 agosto 2012

yes...........

Passi di Apple verso il piccolo schermo
Wsj: "Cerca un accordo con le tv via cavo"

La notizia, pubblicata dal quotidiano finanziario, non è l'unica che conferma le intenzioni di Tim Cook di puntare forte sull'evoluzione della Apple Tv. E' stato infatti appena approvato un brevetto per i menu televisivi, che dà un assaggio di come potrebbe apparire la televisione secondo Apple di ALESSIO SGHERZA

CUPERTINO - Già si mormorava 1, tra addetti ai lavori e siti tecnologici, di un'accelerazione impressa da Tim Cook sulla iTv, come potrebbe chiamarsi l'evoluzione di Apple Tv. Ma nelle ultime ore due notizie concrete corroborano mesi di rumour. La prima è contenuta in un articolo pubblicato dal Wall Street Journal: Apple è in contatto con alcune televisioni via cavo statunitensi per un progetto di un dispositivo che possa trasmettere in diretta, ma che faccia anche le funzioni di tv on demand, negozio virtuale e video-registrazione.

La tv in diretta è quello che ancora manca a prodotti come Apple Tv o Google Tv: si possono acquistare film e serie tv online, guardarle in un secondo momento, vedere sul televisore di casa i video dei propri dispositivi, ma la tv vera e propria manca ancora. Ecco quindi l'offensiva sui cable network: ci pensiamo noi, starà dicendo Apple, i vostri canali li trasmettiamo via internet. Ma le reti non sono convinte ancora: da una parte, Apple rischia di diventare un competitor del settore; dall'altra, hanno paura che il 'canone' da pagare a Cupertino possa
schiacciare i profitti (Apple ad esempio prende il 30% sulle app vendute sul suo store).

Se è vero che un matrimonio d'interesse non si può fare da soli, e quindi Apple dovrà trovare un accordo con i network, quello che invece la casa della mela sa fare benissimo è sviluppare la tecnologia con cui sfruttare quei contenuti, quando li avrà.

Ecco quindi che proprio alla vigilia di Ferragosto, Apple ha ricevuto l'approvazione per un brevetto su un'interfaccia grafica dei menu televisivi, con la capacità aggiuntiva di essere contestuali al video, ovvero in grado di adattarsi a ciò che stiamo vedendo. Il brevetto, il numero US 8,243,017 B2, ha come titolo "Menu overlay including context dependent menu icon" (ovvero "Menu in sovraimpressione che include icone dipendenti dal contesto"), fa largo uso di nomi di canali e programmi su cui evidentemente Cupertino pensa di poter mettere le mani ed è illustrato anche graficamente per mostrare i menu.

Due piccoli passi separati che preparano l'evoluzione della Apple Tv come la conosciamo oggi. Per sapere se Cupertino reinventerà la televisione come ha fatto con computer, lettori musicali, cellulari e tablet forse bisognerà aspettare meno del previsto. Secondo un analista, i dati in arrivo dai fornitori dimostrano che iTv è già in produzione e potrebbe essere lanciato entro il 2012.
  (18 agosto 2012)
------------ 

Africa, la crescita boom che non serve. “Alla gente arrivano solo le briciole”

Secondo il Fmi l'area subsahariana aumenterà il Pil fino a quasi il 6%, la Nigeria diventa la locomotiva, mentre i Brics investono sempre di più nel continente. Ma dietro queste cifre si nascondono molte contraddizioni perché l'aumento del Pil non porta progresso: "C'è una cattiva distribuzione delle risorse"

christine lagarde ngozi okonjo-iweala ministro finanze nigeria interna nuova
Se si guardano i dati economici recenti di molti paesi africani il rischio è quello di restare abbagliati e non riuscire più a scorgere quello che rimane nell’ombra: terribili contraddizioni di un intero continente. Le ultime indicazioni riguardano Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica del Congo e Repubblica Centroafricana, sei nazioni riunite nella Comunità monetaria dell’Africa Centrale che secondo la comune banca centrale cresceranno quest’anno complessivamente del 5,7%, in accelerazione rispetto al + 5,1% del 2011. Ultimo tassello di un puzzle che disegna un area del globo in piena salute, almeno in apparenza. Il Fondo Monetario Internazionale calcola che nel 2012 l’Africa a Sud del Sahara registrerà un incremento del prodotto interno lordo vicino al 6% e riuscirà ad attrarre investimenti esteri per 90 miliardi di dollari. In questo scenario spiccano paesi come la Nigeria, che con un tasso di crescita dell’8% e un rapporto debito/pil al 36% si avvia a superare il Sud Africa nel ruolo di prima economia del continente. Oppure il Ghana dove il Pil marcia a ritmi vicini al 9% annuo grazie a un forte sviluppo dell’industria locale dei servizi informatici, una sorta di piccola India africana. Persino il Ruanda, tristemente noto soprattutto per i terribili genocidi degli anni ’90 e fino a non molto tempo fa tra i paesi più poveri al mondo, scala posizioni su posizioni nella classifica globale della ricchezza. Altri pesi reduci da conflitti civili come Costa D’Avorio e Kenya galoppano a loro volta a ritmi di crescita vicini al 6% l’anno.
L’Economist ha recentemente stilato una classifica degli Stati che dovrebbero registrare la crescita più sostenuta tra il 2011 e il 2015. Sette su dieci sono africani con Etiopia e Mozambico (rispettivamente + 8,1 e + 7,7% annuo) a tirare la volata del Continente Nero preceduti solo da Cina ed India. Si iniziano così ad osservare fenomeni inimmaginabili fino a qualche anno fa impossibili come l’inizio di un’ondata migratoria di lavoratori altamente qualificati che si spostano dalla tormentata Europa ai paesi africani più dinamici. Le ragioni di questa primavera economica africana sono molteplici. Le alte quotazioni delle materie prime, petrolio in primis, garantiscono alti introiti ai paesi esportatori oltre che alle compagnie occidentali concessionarie. India, Brasile e soprattutto Cina stanno rafforzando la loro presenza nel continente, non solo acquistando prodotti ma spesso investendo direttamente sul posto. L’export africano verso i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) ha così ormai soppiantato in larga parte quello verso l’Europa precipitato dal 40 al 20% del totale e di questi tempi essere meno dipendenti dal Vecchio Continente non può essere che un bene. Alcuni analisti inseriscono tra le cause del boom economico anche l’urbanizzazione che sta interessando molte aree dell’Africa e che viene accompagnato dallo sviluppo di reti di servizi ed infrastrutture. Processo che spiega, ad esempio, il forte progresso della telefonia mobile ormai arrivata a 700 milioni di utenti su una popolazione di circa un miliardo di persone.
Dietro il velo delle cifre scintillanti continua però spesso a celarsi una realtà di tutt’altro tenore. Dove la crescita economica non porta progresso, le popolazioni restano drammaticamente povere mentre le terre vengono spremute senza curarsi del domani.
La deforestazione avanza senza sosta, l’agricoltura “slash and burn”, letteralmente taglia e brucia, ha danneggiato seriamente due terzi delle terre coltivabili. Così i contadini africani che nel 1950 disponevano di oltre 13 ettari pro capite oggi si devono accontentare di poco più di 4 ettari. La corsa all’accaparramento di terre coltivabili da parte di Stati e imprese estere è ben raccontato nel libro di Giovanni Porzio “Un dollaro al giorno” che riporta alcuni dei casi più eclatanti. Come quello del Sudan che nonostante i milioni di abitanti che soffrono la fame ha ceduto 1,5 milioni di ettari ai paesi del Golfo Persico. Oppure i 2,8 milioni di ettari acquistati in Congo dalla Cina per produrre carburanti da olio di palma. Secondo stime dell’International Food Policy Research Institute di Washington dal 2006 sono stati ceduti terreni pari all’intera superficie coltivabile della Francia e firmati contratti per 30 miliardi di dollari. Può sembrare tanto come valore assoluto ma rapportato all’estensione complessiva significa che i terreni sono stati ceduti a prezzi irrisori.
Sembra dunque essere più che giustificato l’estremo scetticismo sui reali progressi compiuti dal continente di Raffaele Masto, giornalista, autore di diversi libri sul tema (da ultimo “Buongiorno Africa. Tra capitali cinesi e nuova società civile” edito da Bruno Mondadori) e autore del blog buongiornoafrica.it. “Non ci sono reali benefici per le popolazioni,“ spiega Masto, “i vantaggi e i proventi della crescita economica riguardano solo elite politiche onnivore che in Africa continuano a spadroneggiare, anche grazie al sostegno delle grandi potenze. “Quando la crescita è imponente qualche briciola arriva anche alla gente comune ma si tratta appunto di briciole”. Si costruiscono stadi, palazzi, simboli del potere insomma ma le baraccopoli restano baraccopoli e le popolazioni soffrono come e quanto prima. Esempio emblematico di questa situazione è quello della vendita delle terre a paesi non africani che le usano poi per coltivare prodotti destinati solo ad essere esportati mentre le popolazioni locali continuano a soffrire la fame. “E’ ovvio che se si vendono le terre l’economia, almeno nell’immediato, fa un balzo in avanti, aggiunge Masto, ma la realtà è che si continua a considerare l’Africa un semplice serbatoio di materie prime e mano d’opera a basso costo e non come un potenziale mercato”. Di fatto e come è già accaduto molte volte in passato le risorse dell’Africa stanno insomma finanziando il futuro assetto geopolitico del sistema mondo senza che reali e duraturi benefici per il continente.
Più o meno sulla stessa linea Alessio Fabbiano dell’Università Cattolica di Milano che spiega: “C’è crescita ma non sviluppo e c’è una cattiva distribuzioni delle risorse che rimangono in grandissima parte nella parte alta e già benestante della popolazione”. E’ vero che qualcosa si muove, la classe media si sta lentamente ingrossando ma è un processo limitato e molto al di sotto di quelle che sarebbero le potenzialità del paese. Non manca qualche esempio virtuoso, spiega Fabbiano, come alcuni investimenti nelle energie rinnovabili realizzati in Uganda o in Ruanda ma la quota di introiti ottenuti dalle esportazioni di materie prime che viene reinvestita in progetti utili per le popolazioni locali rimane davvero minima.

------------------

Fast food, ora si paga via smartphone: accordo tra McDonald’s e PayPal

L'esperimento è in corso in 30 punti vendita della catena in Francia ed entro un anno il servizio dovrebbe essere esteso a tutti i 30mila negozi. Starbucks intanto ha già provveduto attraverso la partnership con Square Inc. Nessun cambiamento per i consumatori: il servizio infatti si limita a collegare la carta di credito già esistente

paypal interna nuova
Un esperimento che coinvolge 30 negozi in tutta la Francia e che, secondo una portavoce di McDonald’s, dovrebbe portare all’adozione della tecnologia “entro 24 mesi”. La collaborazione tra PayPal e la catena consentirà ai clienti del fast food di ordinare online il loro pranzo e pagare, tutto da smartphone. L’accordo segna un bel punto a favore dell’azienda specializzata in transazioni online, che dopo aver consolidato il suo predominio nel settore, sta puntando con decisione sui pagamenti mobile. Sul fatto che le tecnologie di pagamento tramite smartphone e tablet siano destinate a un luminoso futuro non ci sono dubbi. L’incertezza, per il momento, riguarda solo il tipo di tecnologia che utilizzeremo e chi riuscirà a imporsi come gestore del sistema di pagamento.
Sotto il profilo delle tecnologie i candidati sono soltanto due e, stando alle ultime notizie, il vantaggio sarebbe tutto per i lettori di carta di credito (da collegare allo smartphone attraverso la presa delle cuffie) e alle app dedicate. Il sistema concorrente Nfc (Near Field Communication, ndr), adottato in via sperimentale anche a Milano per gli abbonamenti ai mezzi pubblici, richiede invece un chip integrato nello smartphone e la sua diffusione è quindi legata all’adozione della tecnologia da parte dei produttori di telefoni. Più difficile sciogliere il nodo del predominio nel settore, che si giocherà principalmente sulla capacità di diffusione dei pretendenti al titolo.
Nella battaglia per aggiudicarsi il ruolo di deus ex machina nei pagamenti mobile, PayPal ha di certo un ruolo da protagonista. Acquisita nel 2002 da eBay, può vantare 113 milioni di utenti registrati e una reputazione inappuntabile grazie all’esperienza decennale nella gestione di transazioni online. Questa volta, però, il gigante americano deve vedersela con la concorrenza di Square Inc, società fondata nel 2009 dal “papà” di Twitter Jack Dorsey e specializzata proprio in questo settore. All’inizio di agosto Square ha annunciato un accordo con la catena Starbucks per l’introduzione del sistema di pagamento mobile nelle popolari caffetterie sul territorio degli Stati Uniti. Risultato: niente più pagamenti alla cassa in circa 7mila negozi Starbucks. Più che una partnership, quello tra le due aziende è però un vero “patto di ferro” che prevede un investimento di 25 milioni di dollari da parte di Starbucks e l’ingresso dell’amministratore delegato Howard Schultz nel consiglio d’amministrazione di Square Inc.
Ora arriva la risposta di PayPal, che in futuro potrebbe portare il suo sistema di pagamento nei 30mila fast food a marchio McDonald’s e reggere così il passo del concorrente nella diffusione del suo sistema di pagamento. Ma quali sono i vantaggi per i consumatori rispetto al normale sistema di pagamento tramite carta di credito? In realtà è piuttosto difficile dirlo. A guardare le condizioni di utilizzo di Square Inc, per esempio, si scopre che la società trattiene il 2,75% come commissione per la transazione, addebitate a chi incassa il pagamento. Si tratta di un importo superiore a quello richiesto dai normali circuiti di credito, ma che secondo l’azienda è compensato dai costi “nascosti” a cui i negozianti sono soggetti utilizzando i normali sistemi di pagamento tramite carta. Per i consumatori cambia ben poco: alla fine, infatti, il servizio si limita a collegare la carta di credito già esistente. Il maggior vantaggio rimane quello di poter fare qualsiasi acquisto senza nemmeno mettere mano alla carta di credito e saltando le code alle casse.

-------------- 

LA RICERCA

Oceani promossi a sorpresa
"Salute ok, ma serve fare di più"

Malgrado i problemi legati all'inquinamento e alla perdita di biodiversità, un nuovo metodo di valutazione globale presentato sulla rivista Nature assegna la sufficienza allo stato dei mari del Pianeta

ROMA - Inquinamento in crescita 1, stock ittici al collasso 2, biodiversità in crisi, barriere coralline sempre più danneggiate 3. Quello arrivato nel corso degli ultimi anni dagli oceani del Pianeta è stato un lungo bollettino di notizie drammatiche. Eppure, anche mettendo insieme tutti questi fattori negativi, complessivamente lo stato di salute dei mari non è poi così catastrofico come si potrebbe temere. A certificarlo è l'Ocean Health Index, uno nuovo sistema di rivelazione messo a punto da un'ampia equipe di scienziati per valutare lo stato di salute degli oceani incrociando un vasto numero di parametri, ponendoli quindi in rapporto con le necessità umane.

La metodologia adottata dai ricercatori e la prima pagella mondiale emersa dall'applicazione di questo sistema è stata quindi pubblicata su Nature 4. Dalle votazioni finali non mancano certo i motivi di preoccupazione, ma sorprendentemente nel complesso la salute degli oceani viene promossa con la sufficienza grazie a un quoziente di 60 su 100. Risultato che ovviamente tiene conto però della media, mentre dall'esame delle singole aree geografiche emergono situazioni molto diverse tra loro, con diverse zone del Pianeta in grave sofferenza.

"L'indice per la salute degli oceani - spiega il coordinatore dello studio Ben Halpern, ecologo dell'università della California a Santa Barbara - è unico perché considera gli umani come parte dell'ecosistema oceanico: ciò significa che non siamo solo un problema, ma siamo anche parte della soluzione".

L'analisi globale dei mari ha preso in considerazione la situazione di ogni Paese costiero del mondo dal punto di vista ecologico, sociale, economico e politico. Dieci le 'materie d'esame' valutate in centesimi: tra queste la pulizia delle acque, la biodiversità, la disponibilità di cibo e l'economia costiera. La valutazione globale è come detto pari a 60 su 100, con il punteggio dei singoli Stati che varia da 36 a 86. Tra i primi della classe ci sono il nord Europa, il Canada, l'Australia e il Giappone. Il miglior punteggio in assoluto è stato ottenuto dall'isola di Jarvis, un atollo corallino disabitato nell'oceano Pacifico. Maglia nera invece per l'Africa occidentale, il Medio Oriente e l'America centrale.

I mari italiani raggiungono la sufficienza, con un punteggio medio di 60 centesimi, ma vengono bocciati per quanto riguarda il mantenimento turistico delle coste (8/100) e la loro protezione (35/100). Ottengono ottimi voti per quanto riguarda la biodiversità (86/100) e la pulizia delle acque (72/100).

"Quando diciamo che la salute degli oceani vale 60 su una scala di 100 non significa che stiamo andando male", commenta l'ecologa Karen Mcleod dell'università dell'Oregon. "Questo ci dimostra che c'è ancora un margine di miglioramento, ci suggerisce quali azioni strategiche possono fare la differenza e ci dà un punto di riferimento su cui misurare i progressi nel tempo".

(17 agosto 2012)


Nessun commento:

Posta un commento