lunedì 28 novembre 2011

hahahahah

Css: "Niente cellulari ai bambini"Applicare principio precauzione

Per il Consiglio superiore, nonostante non sia stato finora dimostrato alcun rapporto di causalità tra l'esposizione a radio frequenze e le patologie tumorali, è necessario educare i più piccoli a un utilizzo non indiscriminato ma appropriato, quindi limitato alle situazioni di vera necessità, del telefonino

ROMA - Nell'utilizzo dei telefoni cellulari va applicato, soprattutto per i bambini, il "principio di precauzione, che significa anche l'educazione a un utilizzo non indiscriminato, ma appropriato, quindi limitato alle situazioni di vera necessità, del cellulare". Lo afferma il Consiglio superiore di Sanità (Css) in un parere.

INCHIESTE: Pericolo cellulari 1

Il Consiglio superiore di sanità ha affrontato la questione dei rischi potenziali di uno smodato uso di telefoni cellulari nella seduta del 15 novembre. "In linea con gli studi dell'Agenzia internazionale della ricerca sul cancro (Iarc) e in accordo con l'Istituto superiore di sanità, il Consiglio superiore rileva che non è stato finora dimostrato alcun rapporto di causalità tra l'esposizione a radio frequenze e le patologie tumorali, si legge in una nota del ministero della Salute.

Tuttavia le conoscenze scientifiche oggi non consentono di escludere l'esistenza di causalità quando si fa un uso molto intenso del telefono cellulare. Il Ministero della Salute avvierà una campagna di informazione sulla base delle ultime relazioni degli organismi tecnico-scientifici per sensibilizzare proprio a tale uso appropriato", conclude la nota.

Sulla questione Umberto Veronesi è meno allarmista:"Non credo che i cellulari facciano molto male, possono dare un lieve aumento della temperatura a una piccola parte dell'apparato cerebrale, ma senza effetti importanti". E per quanto riguarda i tumori ha aggiunto: "E' una cosa che dicono, ma che si dice da 15 anni. Di ricerche ce ne sono mille...", ha concluso Veronesi.

(28 novembre 2011)
 
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Referendum sull’acqua: volontà popolare imprigionata nei cavilli giuridici dei gestori 

Subito dopo l'esito della consultazione popolare del 12 e 13 giugno scorsi, l'Acea ha chiesto rassicurazioni sul mantenimento degli accordi stipulati a Giulio Napolitano, avvocato, esperto del settore e figlio del Presidente della Repubblica. Secondo il parere legale, l'esito dei quesiti non sarebbe sufficiente a intaccare gli interessi delle società idriche. Ecco perché
Il Sì all’acqua pubblica uscito dalle urne lo scorso giugno rischia di vedere i suoi effetti allontanarsi nel tempo, imprigionando la volontà popolare nelle pastoie giuridiche della giustizia amministrativa. E’ questa la tattica che i gestori privati dell’acqua hanno messo in campo subito dopo il voto dei ventisette milioni di italiani il 12 e 13 giugno scorsi, preparando le battaglie legali che potranno affollare i Tribunali nei prossimi mesi.

La mossa avviata da Acea - primo operatore idrico, società quotata in Borsa – che ha chiesto ad un giurista esperto quali armi tecniche utilizzare per contrastare la volontà dei cittadini italiani, è arrivata all’indomani del voto, dopo un Consiglio di amministrazione dove predominavano le facce cupe. Un parere contenuto in un documento di sedici pagine – che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare – con la pesante firma dell’avvocato Giulio Napolitano, ordinario di diritto pubblico a Roma Tre, uno dei due figli del Presidente della Repubblica – che gira dallo scorso giugno riservatamente tra i gestori dell’acqua, citato nei Consigli di amministrazione di tante Spa che si occupano di risorse idriche. Un dossier articolato, inviato a Renato Conti, manager della multinazionale romana, a capo della Direzione funzione legale, quando nelle piazze ancora si festeggiava la vittoria dei Sì.

Due i quesiti che Acea ha posto poche ore dopo il risultato del referendum: “Conoscere il nuovo assetto normativo dei servizi pubblici locali, verificando la legittimità delle convenzioni” e “un parere in merito alla nuova disciplina delle tariffa”, chiedendo lumi sulla “legittimità e validità degli atti stipulati”. In altre parole Acea voleva essere rassicurata dalla voce autorevole di Giulio Napolitano sul mantenimento di quelle condizioni di gestione dell’acqua contestate da tanti comitati che avevano portato milioni di italiani ad esprimere il loro voto per una gestione pubblica del servizio idrico integrato.

L’importanza del documento – di per se assolutamente legittimo – sta nella data, il 24 giugno 2011. L’interpretazione giuridica contenuta anticipa le tesi sostenute poi in tutta Italia dalle Autorità d’Ambito, che fino ad oggi hanno negato la riduzione delle bollette dopo l’abrogazione referendaria del 7% di profitto garantito.

Chi pensava che con il referendum si potesse tornare alla gestione pubblica dell’acqua, secondo Giulio Napolitano si deve mettere l’anima in pace: con il risultato del voto “in nessun modo (…) è possibile trarre indicazioni prescrittive in ordine ad un ipotetico ritorno a forme di gestione integralmente pubblica dei servizi idrici”. Nulla da fare – almeno nell’immediato – anche per il secondo quesito, quello che ha eliminato il profitto garantito, considerato dai gestori privati dell’acqua come una vera e propria bomba atomica in grado di eliminare ogni convenienza nel business degli acquedotti.

“La valutazione dell’effettivo impatto dell’abrogazione referendaria – si legge nel parere inviato ad Acea – è resa più complessa (…) dal decreto legge 70/2011″, ovvero dalla norma del governo Berlusconi che ha creato l’Agenzia di vigilanza delle risorse idriche. Secondo Giulio Napolitano toccherà proprio a questo organismo modificare la tariffa, come poi hanno sostenuto i gestori in tutta Italia. Peccato che questo nuovo organismo non è stato creato fino ad oggi. E, secondo il documento, le conferenze dei sindaci non hanno nessun potere per cambiare immediatamente la tariffa, perché questa operazione non terrebbe conto del “costo finanziario della fornitura del servizio”. Una tesi che avrà un particolare successo, partendo dalla Puglia - che non ha abrogato il 7% ritenendolo, appunto, un costo finanziario – fino all’ultimo documento di fine ottobre della commissione di vigilanza delle risorse idriche.

Ma c’è di più, una sorta di cavallo di Troia che potrebbe garantire alle società private dell’acqua di mantenere inalterati i dividendi dopo il referendum: “Tutti gli investimenti già effettuati dal gestore – spiega Napolitano -, anche laddove le opere non siano completate, dovranno continuare a essere coperti e remunerati in base alla tariffa a suo tempo fissata dall’Autorità d’Ambito“. In altre parole, se l’investimento del gestore è ammortizzato anche sui prossimi anni, il 7% di remunerazione del capitale rimane, con buona pace del referendum.

Per capire l’importanza di questo punto occorre guardare da vicino i conti di Acea, scoprendo gli incredibili meccanismi – permessi da quella legge poi abrogata – che hanno portato a utili milionari. Quando Acea ha iniziato a gestire, ad esempio, l’acqua nella provincia di Roma, ha stimato il proprio valore – e quindi la base per il calcolo del profitto del 7% – in 894,34 milioni di euro. Una cifra che viene sommata, anno dopo anno, all’ammortamento degli investimenti, facendo così crescere esponenzialmente la remunerazione, che, dopo le tasse, finisce nei dividendi per gli azionisti (oltre al Comune di Roma, che detiene il 51%, il gruppo Caltagirone, la Suez e tanti altri investitori privati). Quel valore iniziale doveva essere confermato da una perizia fatta dalla conferenza dei sindaci, atto che, però, non è mai stato realizzato, come ha ammesso la stessa segreteria tecnica operativa. Questo meccanismo ha garantito ad Acea, per la sola gestione dell’acqua nella provincia di Roma, dal 2003 al 2008, 404 milioni di euro di remunerazione del capitale investito, una cifra che ha alimentato i conti – non sempre rosei – della holding romana. Ora è probabile che Acea consideri quella cifra iniziale – che valuta il suo valore basandosi su criteri come il posizionamento sul mercato e il management – come un investimento avvenuto prima del referendum, e quindi, secondo il parere chiesto al giurista, intoccabile.

La battaglia che i comitati hanno annunciato sotto il nome di “obbedienza civile” si preannuncia, dunque, campale. La difesa del voto dovrà passare per i meandri giuridici pronti a bloccare quella piccola rivoluzione di giugno che punta a difendere i beni comuni.
 
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Giornalisti e hacker si uniscono per ripensare il futuro dell’informazione
“Vi sentite più giornalisti o hacker?”. Joanna Geary, editor per lo sviluppo digitale (digital development editor) del Guardian, lo chiede ai partecipanti dell’incontro londinese di Hacks Hackers, il meetup che riunisce cronisti appassionati di nuove tecnologie e sviluppatori web. Contaminazione e discussione delle nuove frontiere dell’informazione sono l’obiettivo che li fa incontrare una volta al mese in un pub della City. Una birra in mano mentre ascoltano gli interventi, si conoscono e magari decidono di avviare nuove start up.

Nato oltreoceano nel 2009 su iniziativa di Burt Herman, ex corrispondente della Associated Press, Aron Pilhofer del New York Times e Rich Gordon della Medill School of Journalism presso la Northwestern University, Hacks Hackers voleva creare “un network di persone che conciliassero le finalità del giornalismo con l’innovazione della Rete”. Da San Francisco i meetup si sono diffusi a New York, Boston e Austin fino a estendersi in America Latina e in Europa. Per ora solo a Londra, Birmingham e Bruxelles.

“Organizziamo un incontro al mese ma vorremmo farne di più”, spiega Joanna, responsabile della sezione londinese. “Tanti quotidiani, testate di new media e sviluppatori chiedono di entrare in partnership con Hacks Hackers, aperto a chi vuole condividere idee e spunti”. I meetup nella capitale inglese, attraverso il dialogo tra cronisti e informatici, hanno prodotto l’avvio di alcune start up. Complice un clima liberale che unisce creatività e concorrenza. “Londra sta vivendo un momento molto interessante per chi ha progetti per il web”, prosegue. “Abbiamo rinominato la parte est della città ‘Silicon roundabout‘, che riprende la valle californiana dell’innovazione, perché lì sono nate alcune imprese tech di successo.

E anche il governo inglese e l’Europa le stanno sostenendo con numerosi finanziamenti”. Punti di partenza che incoraggiano il desiderio di trasformare la teoria in pratica. “Oltre alle nuove imprese online, alcuni sviluppatori che hanno partecipato a Hacks Hackers sono stati coinvolti in progetti di consulenza, training e web security per giornalisti, anche se la reciproca comprensione tra le due categorie non è sempre facile”. In che senso? “Gli informatici credono che i cronisti siano poco accurati, ma chi vive nel mondo dei media conosce la serietà con cui operano tanti professionisti. Dall’altra parte chi scrive ritiene i tecnici web maghi in grado di risolvere qualsiasi problema con uno schiocco di dita. Ma non capiscono che a volte la soluzione, anche se appare semplice, tecnicamente richiede tempo e fatica”.

Tra gli argomenti di dibattito tra le due categorie, l’uso dei social media è centrale. “Agli incontri attiriamo i fan e non gli scettici e nel mondo dell’informazione stiamo scoprendo il loro ruolo nel giornalismo investigativo”. Al Guardian, ad esempio, è stata cruciale la partecipazione dei lettori per capire la dinamica e chi fosse il responsabile della fine di Ian Tomlinson, l’edicolante morto nel 2009 a Londra durante le proteste del G20. Dalle prime analisi sembrava fosse caduto a terra stroncato da un infarto. Paul Lewis, il cronista che ha seguito il fatto, aveva lanciato su Twitter una discussione intorno al caso, che pareva controverso. Gli hanno risposto 17 testimoni e il giornale è entrato in possesso in esclusiva di un video che documentava il pestaggio da parte di un poliziotto, Simon Harwood. Da lì si sono aperte le indagini e l’agente sarà processato il prossimo giugno. “Paul non conosceva i suoi informatori online”, puntualizza Joanna. “Non gli hanno rovinato la storia. Hanno solo consegnato uno scoop al Guardian”.

Esempi e casi di studio di cui si discute ai meetup e che pongono il mondo dei media davanti al bisogno di confronto con le community di lettori. Ma che nel nostro paese non sono ancora arrivati. “Sarebbe un’ottima idea organizzare Hacks Hackers anche in Italia, magari a Milano”, osserva Joanna. Come fare? “Semplice. Basta scrivere a Burt e seguire le istruzioni sul sito http://hackshackers.com/chapters/meetups/. E poi bisogna cominciare”.

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