martedì 6 settembre 2011

dai dai......

Finanziaria, la maggioranza taglia tutto
ma regala due miliardi a Rai e Mediaset 

Respinto l'emendamento del Pd che chiedeva un'asta competitiva per l'assegnazione delle nuove frequenze tv digitali. Una misura che avrebbe potuto alleggerire la scure sugli enti locali. Vita: "Un altro caso emblematico del conflitto d'interessi di Berlusconi"
“In commissione Bilancio ci abbiamo provato, ma è andata male”. E’ la delusione il sentimento principale fra le file del Partito democratico che al Senato si è visto bocciare per un solo voto (13 contro 12) il suo emendamento alla manovra sull’asta per le frequenze televisive. La normativa, presentata dai senatori Luigi Zanda e Vincenzo Vita e condivisa anche da Italia dei valori e Terzo polo, puntava a indire un’asta competitiva per l’assegnazione delle frequenze generate dal passaggio della televisione dalla tecnologia analogica a quella digitale.

Ma le opposizioni hanno sbattuto contro un muro e il cosiddetto “dividendo digitale” sarà assegnato alle emittenti che parteciperanno alla gara tramite un “concorso di bellezza” (beauty contest): senza che lo Stato guadagni un euro dall’operazione.

Eppure, proprio in questi giorni, è in corso un’altra competizione che riguarda le compagnie telefoniche. Come nel caso delle tv, i colossi delle telecomunicazioni (Wind, Telecom Italia, Vodafone e H3g) stanno dandosi battaglia per conquistare un’altra porzione di etere (sempre liberata dalla digitalizzazione-compressione dei segnali televisivi) su cui far correre i servizi multimediali della telefonia mobile (la futura rete 4G).

La differenza fra le due gare è che nel caso delle emittenti televisive l’Agcom, e ministero dello Sviluppo economico hanno optato per il beauty contest, mentre per le Tlc si è scelta una normale asta competitiva. Che, fra proposte iniziali e successivi rilanci, frutterà la bellezza di 3 miliardi di euro.

“E’ un caso di scuola del conflitto d’interessi del presidente del Consiglio – attacca Vita – che dimostra un concetto semplicissimo: finché Silvio Berlusconi sarà al governo è semplicemente impossibile fare qualsiasi legge che vada a scalfire gli interessi di Mediaset”.

Alle televisioni del premier, assieme a Rai, Sky e altre emittenti, verrà fatto un regalo che se fosse stato messo all’asta avrebbe potuto fruttare fino a due miliardi di euro, andando ad alleggerire i tagli alla spesa pubblica che stanno mettendo in ginocchio gli enti locali.

“E’ un’ingiustizia – dice Zanda – Questa mattina abbiamo ricevuto i rappresentanti di comuni, province e regioni che illustravano come la mannaia del governo li costringerà a cancellare una serie di servizi, dai trasporti alla sicurezza. E la maggioranza cosa fa? Regala un prezioso bene dello Stato alle emittenti televisive”:

I senatori del Pd hanno deciso di ripresentare lo stesso emendamento anche in Aula, in modo che, se non verrà posta la questione di fiducia, ci sarà almeno lo spazio per una discussione pubblica. Perché, come sostiene Vita, “l’interesse del governo è di far passare l’operazione sotto il massimo silenzio, dato che siamo di fronte a una palese ingiustizia: si taglia tutto, ma si regalano 2 miliardi alle televisioni. Mediaset compresa”.

Una prova del massimo riserbo dell’esecutivo l’hanno avuta oggi i giornalisti che cercavano di strappare una dichiarazione al ministro dello Sviluppo economico. Alla domanda sul perché la maggioranza abbia deciso di regalare quel patrimonio ai canali televisivi, Paolo Romani non si è neanche degnato di rispondere. “Non sapeva cosa dire”, scherza Zanda. “E se poi gli scappava la verità?”, si chiede sarcasticamente Vita. Entrambi però sono certi che il ministro con la bocca cucita sappia benissimo cosa fare: a partire da domani, quando prenderà il via la gara per l’assegnazione delle super-frequenze digitali. Che, secondo i senatori democratici, sarà un’allegra sfilata di televisioni, sempre quelle, con tanto di regalo finale. Alla faccia dei tagli e del pluralismo dell’informazione.

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GIAPPONE

Fukushima, livelli di cesio 137
superiori a quelli di Chernobyl

Il piano di decontaminazione non arriva e alla vigilia dell'inizio delle scuole Greenpeace chiede che non aprano quelle nell'area contaminata e non evacuata di ANTONIO CIANCIULLO

TOKYO - A sei mesi dal disastro, non si intravede un ritorno alla normalità nella regione di Fukushima. Domani cominceranno le scuole e Greenpeace ha lanciato un appello affinché vengano tenute chiuse quelle nell'area contaminata ma non evacuata in cui i limiti di radioattività sono fino a 70 volte oltre il livello ritenuto accettabile per la popolazione.

"Nessun genitore dovrebbe scegliere tra la salute e l'educazione dei propri figli", ha dichiarato Kazue Suzuki, responsabile della campagna nucleare di Greenpeace Giappone, "il piano di decontaminazione, atteso ormai da troppo tempo, arriverà comunque troppo tardi. Il nuovo primo ministro 1deve rinviare subito l'apertura delle scuole, trasferire quelle nelle aree più a rischio e mobilitare le migliaia di lavoratori necessari a portare i livelli di radioattività il più possibile al di sotto di 1 millisievert anno".

La mappatura aggiornata della radioattività presentata in un recente incontro al ministero della Scienza ha presentato sorprese in sei municipalità (Okumamachi, Futabamachi, Namiemachi, Tomiokamachi, Iitatemura e Minami-Soma): il cesio è oltre i limiti che hanno fatto scattare l'allarme evacuazione a Chernobyl.

Nel suolo in 34 aree della prefettura di Fukushima sono stati rilevati più di 1,48 milioni di becquerel per metro quadrato di cesio 137, il limite
scelto per mettere in sicurezza i residenti dopo l'emergenza in Ucraina. Nel complesso le emissioni di eradioattività calcolate sono state pari a un sesto di quelle provocate dalla catastrofe del 1986.

Il Japan Times ha calcolato che il cesio radioattivo fuoriuscito dalla centrale nucleare è pari a 168 volte quello emesso dalla bomba di Hiroshima. E l'impatto sulla salute dipenderà in buona parte dalla capacità di bloccare la circolazione di cibi contaminati.

Gli accertamenti proseguono a ritmo serrato e diverse partite di prodotti radioattivi sono state bloccate. In particolare le analisi disposte dal governo hanno individuato un picco di 8.571 becquerel in un campo a Date e di 6.882 a Iwaki, nella prefettura di Fukushima. Nelle aree in cui è stata proibita la coltivazione di riso, le mappe mostrano punte di contaminazione molto alta. Tanto che la campagna di monitoraggio verrà rafforzata nei prossimi giorni.

Ma anche l'operazione di messa in sicurezza si rivela problematica. Pochi giorni fa il primo ministro uscente, Naoto Kan, aveva chiesto al governatore della prefettura di Kukushima di accettare la costruzione di un sito temporaneo di stoccaggio delle terre e delle ceneri contaminate: "Non abbiamo intenzione di trasformarlo in un deposito definitivo senza consultarvi, ma al momento non ci sono alternative. Ci sono aree in cui i livelli di radioattività sono talmente alti che potrebbero rimanere non abitabili per molto tempo, anche effettuando le procedure di decontaminazione".
(31 agosto 2011)
 
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Usa, 11 settembre dieci anni dopo
Come è cambiata l’economia
L’idea che il più clamoroso atto terroristico sul suolo statunitense abbia influito in profondità nel sistema capitalistico è accettata dalla maggior parte degli studiosi e di chi agisce e lavora nel mondo finanziario, americano e non. Quello su cui ancora non c’è unanimità è quanto quell’atto abbia cambiato il sistema capitalistico
Per i terroristi dell’11 settembre, il World Trade Center era il simbolo del capitalismo americano. Distruggere le Due Torri significava distruggere il sistema economico che aveva condotto gli Stati Uniti a essere la prima potenza mondiale. Dieci anni dopo, gli Stati Uniti e il mondo stanno ancora pagando gli effetti – economici, finanziari, sociali – di quell’evento.

“Non è stato l’11 settembre a cambiare l’economia americana – spiega Anita Dancs, che insegna economia alla Western New England University-. E’ il nostro modo di reagire all’11 settembre che ha cambiato l’economia”. L’idea che il più clamoroso atto terroristico sul suolo americano abbia influito in profondità nel sistema capitalistico pare in effetti accettata dalla maggior parte degli studiosi e di chi agisce e lavora nel mondo finanziario, americano e non. Quello su cui ancora non c’è unanimità è quanto quell’atto abbia cambiato il sistema capitalistico.

Ci sono per esempio quelli che, nel conteggio dei costi dell’11 settembre, mettono tutto, ma davvero tutto: danni umani e materiali degli attentati, crollo della Borsa (il Dow Jones Industrial Average crollò di 14 punti nelle ore immediatamente successive all’attacco), aumenti nel prezzo della benzina, costi dei rinnovati sistemi di sicurezza negli aeroporti, uffici pubblici, strade, nuove tariffe assicurative e di spedizione, e soprattutto le spese militari in Iraq e Afghanistan.

Per i sostenitori della “tesi massimalista”, l’11 settembre è costato agli Stati Uniti oltre 4mila miliardi di dollari. Una cifra enorme, che ha ulteriormente innalzato il già spaventoso debito ed eroso, forse per sempre, gli standard di vita degli americani. Soprattutto, l’11 settembre avrebbe introdotto nella politica alcune “disastrose cattive abitudini”, da cui difficilmente si tornerà indietro. “Per la prima volta dalla Rivoluzione americana, i costi della guerra sono stati finanziati contando in buona parte sul debito”, hanno scritto Linda Bilmes e il Premio Nobel Joseph Stiglitz, autori di “The Three Trillion Dollar War”. (Per i due economisti, soltanto le spese delle guerre in Afghanistan e in Iraq costeranno agli Stati Uniti 4 mila miliardi di dollari).

La “tesi massimalista” non piace a chi diffida di un troppo automatico meccanismo di causa ed effetto. Dopo il 2002, infatti, molte cose importanti sono successe, in nessun modo riconducibili – o difficilmente riconducibili – al terrore e distruzione che travolsero gli Stati Uniti l’11 settembre. Come legare infatti all’11 settembre la bolla immobiliare, seguita dalla crisi dei mutui, seguita dalla crisi finanziaria che ha nutrito la più grave recessione economica mondiale dai tempi del crollo di Wall Street del 1929? Meglio, molto meglio, secondo i sostenitori di una “tesi minima”, limitarsi alla conta dei danni effettivi, e sul breve periodo, degli attentati.

“L’11 settembre è stato poco più di un bip”, ha spiegato ad Associated Press Adam Rose, esperto di terrorismo ed economia della University of Southern California. Rose fissa i costi della tragedia a circa 130 miliardi di dollari e cita, a riprova della sua tesi, il fatto che a inizi novembre 2001 il Dow Jones Industrial Average era rapidamente tornato ai livelli pre-11 settembre. Anche altri fattori paiono in qualche modo svalutare la centralità degli atti terroristici. Se oggi gli automobilisti pagano la benzina il doppio che nel 2001, non dipende unicamente dalle contese sanguinose scoppiate nelle aree di produzione del petrolio, ma dal fatto che la richiesta di energia è aumentata con l’affacciarsi sul palcoscenico del mondo di altre potenze, e di centinaia di milioni di nuovi consumatori.

Quello su cui oggi appare esistere una quasi totale unanimità è comunque il prezzo pagato per le aumentate misure di sicurezza. “La vera discriminante dell’11 settembre è proprio questa – ci racconta David Cole, giurista di Georgetown University -. Gli attentati hanno fatto crescere a dismisura l’industria della sicurezza”. Un rapporto di una commissione del Senato ha valutato in circa 400 miliardi le spese sostenute dal governo federale per evitare il temuto, ed evocato, ripetersi dell’11 settembre. 40 miliardi sono stati pagati soltanto per aumentare la sicurezza negli aeroporti.

Più difficile è invece calcolare quanto abbiano speso le aziende per rendere più sicuri i loro affari. Questioni di privacy hanno spesso tenuto ben nascosti i numeri di queste uscite (spesso trasferiti ai consumatori). Ma “fare affari negli Stati Uniti è diventato sempre più caro dopo il settembre 2001”, spiega Sung Won Sohn della California State University at Channel Islands. Nuovo personale di sicurezza, videosorveglianza, screening all’entrata dei luoghi di lavoro, messa al sicuro dei sistemi informatici (soprattutto per banche e istituti finanziari) hanno moltiplicato i costi. La crisi finanziaria, e l’assassinio di Osama bin-Laden, dovrebbero aver diminuito percezione del pericolo e possibilità di sostenere spese così elevate. “A questo punto è però difficile tornare indietro, e smantellare il faraonico sistema della sicurezza”, spiega ancora Cole.

E’ comunque difficile levarsi dalla testa che il vero lascito economico dell’11 settembre siano proprio le spese militari, il fiume di denaro fatto affluire dall’amministrazione Bush, e poi da quella Obama, in Afghanistan, in Iraq, in ogni altra parte del mondo in cui gli Stati Uniti abbiano percepito un (supposto) pericolo. I 4 mila miliardi che Stiglitz e la Bilmes hanno visto prendere la strada dell’Afghanistan e dell’Iraq sono stati sottratti al lavoro, agli investimenti, alla sanità, all’educazione. “Non puoi spendere miliardi in una guerra fallita all’estero, e non sentire il dolore a casa”, hanno scritto Stiglitz e la Bilnes. A parte i numeri e le percentuali, è proprio quel “dolore” – nelle case, sulle tavole, nelle scuole e negli ospedali – che gli americani hanno più percepito dopo il settembre 2001.

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