giovedì 26 gennaio 2012

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Megaupload, fondatore rimane in carcere
ora l'Fbi indaga su due nuovi siti

Respinta la richiesta dei legali del guru del file-sharing Kim Schmitz, detto Dotcom, agli arresti per l'accusa di pirateria informatica dopo l'operazione dell'Fbi contro i suoi siti. Dopo la chiusura del servizio, provvedimenti anche per i sudamericani Cuevana e Taringa

AUCKLAND - Resta in carcere in Nuova Zelanda Kim Dotcom, alias Kim Schmitz 1, il guru del file-sharing diventato miliardario grazie al network Megaupload 2 e ai suoi affiliati, finito in manette 3 nell'ambito di una maxi operazione anti-pirateria informatica condotta dal Fbi.

Il giudice ha infatti respinto la richiesta avanzata dai suoi legali di scarcerazione su cauzione. Il fondatore di Megaupload, tedesco di 37 anni, dovrà restare in carcere fino al 22 febbraio. Insieme ad altre tre persone arrestate, del gruppo "Mega Conspiracy" (altri tre sono ricercati), Schmitz è accusato dalla giustizia americana di reati informatici che hanno generato 500 milioni di dollari di danni.

Megaupload, nella top ten dei siti più frequentati al mondo, è stato nel frattempo chiuso, lasciando i 150 milioni di utenti registrati senza accesso ai file immagazinati nei server del servizio. Dal 2005, anno in cui venne fondato Megaupload, ad oggi Dotcom è diventato ricchissimo: solo nel 2010 si stima che abbia guadagnato 50 milioni di dollari.

Cuevana e Taringa. Anche due nuovi siti di condivisione, gli argentini Cuevana e Taringa, sono stati colpiti dall'onda lunga dell'affaire Megaupload. Entrambi i servizi sono nel mirino dell'Fbi, dopo essere stati identificati come piattaforme in grado di condividere i contenuti esattamente come Megaupload. Con un traffico di utenti non indifferente: sei milioni al giorno. (25 gennaio 2012)
 
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Frequenze e digitale terrestre
La lotteria dei rimborsi alle tv locali 

Per liberare la porzione d'etere assegnata alle compagnie telefoniche, lo Stato ha previsto una serie di indennizzi per le televisioni locali che dovranno sgomberare. Ma alle emittenti parrocchiali con poche centinaia di ascoltatori andranno gli stessi soldi di realtà solide che hanno centinaia di dipendenti. Telelombardia: “Una truffa”
Che cosa hanno in comune Tele Sol Regina, emittente cremonese con tre collaboratori, e Telelombardia che, con i suoi 135 dipendenti e un centinaio di ripetitori, copre un bacino d’ascolto potenziale di 12 milioni di telespettatori? A prima vista niente. Eppure per il ministero dello Sviluppo economico sono esattamente uguali. Tant’è che riceveranno gli stessi soldi per sgomberare il canale sul quale irradiano il proprio segnale. Perché? Entrambe trasmettono su una frequenza compresa fra i canali 61 e 69, una porzione d’etere molto particolare. Sì, perché è quella che lo Stato ha recentemente messo all’asta per potenziare la banda 4G (Internet senza fili e servizi multimediali per i telefonini) riuscendo a racimolare la bellezza di 4 miliardi di euro. La gara era riservata alle compagnie di telecomunicazioni come Vodafone e Wind che, desiderose di ampliare la propria capacità trasmissiva, a forza di rilanci hanno portato una notevole boccata d’aria alle disastrate casse dello Stato.

Il problema però è che a dicembre 2010, quando l’allora ministro Tremonti inserì in Finanziaria la gara, già una decina di regioni avevano fatto lo switch off e cioè erano passate dalla trasmissione analogica a quella digitale terrestre. E una parte dello spettro assegnato alle antenne locali, come Telelombardia e Tele Sol Regina, era proprio quello compreso nello slot 61-69. Niente di preoccupante perché il governo avrebbe messo a punto un decreto teso a risarcire le emittenti obbligate a fare i bagagli per lasciare spazio alle Internet key e ai videofonini.

Ora la bozza del regolamento è pronta, il fattoquotidiano.it ha potuto leggerla in anteprima e le sorprese non sono mancate. Tutte le emittenti riceveranno lo stesso indennizzo economico: dall’emittente parrocchiale che trasmette per qualche centinaio di fedeli alle corazzate che, a livello regionale, se la giocano con Rai, Mediaset e La 7. Ma per il titolare dello Sviluppo economico Corrado Passera fa lo stesso. Tant’è che l’unico criterio introdotto per individuare il valore di una frequenza (e quindi il relativo rimborso per l’emittente che su quello spazio trasmette) è su base regionale: se in Trentino Alto Adige un canale viene valutato 559mila euro, in Emilia Romagna si sale a 2milioni e 300mila. Testa di serie è la Lombardia, la più popolosa regione d’Italia, dove l’indennizzo sale a 5 milioni e 400mila euro.

“E’ una truffa – tuona Sandro Parenzo, patron di Telelombardia – . La tv del parroco che trasmette per 70 persone una messa e lo stesso film tutti i giorni, riceverà lo stesso nostro indennizzo che produciamo informazione per tutta la giornata e abbiamo speso 85 milioni di euro per i nostri impianti di trasmissione. La tv del cugino dell’assessore che ha tre dipendenti avrà gli stessi soldi nostri che ne abbiamo 135 e un centinaio di collaboratori”.

Ma cosa dice la bozza di regolamento emanata dal ministero dello Sviluppo economico? Che le “emittenti locali legittimamente operanti” nelle regioni “già digitalizzate alla data dell’entrata in vigore della Legge 13 dicembre 2010 n. 220”, a seguito del “volontario rilascio delle frequenze oggetto di diritto all’uso” possono partecipare alla procedura “d’attribuzione di una misura economica di natura compensativa”: 170 milioni di euro complessivi da dividere fra le varie antenne.

La procedura prevista dal capo di via Vittorio Veneto non piace neanche a uno dei maggiori esperti italiani del settore, Antonio Sassano, consulente di Paolo Gentiloni quando era ministro delle Comunicazioni e docente universitario: “E’ un meccanismo punitivo per le emittenti migliori, quelle che vogliono fare veramente tv”. E a Parenzo di essere considerato come Primarete Lombardia (capitale sociale di 81mila euro e cinque dipendenti), non gli va proprio giù: “Perché mentre gli altri mandano in onda le televendite io ho un palinsesto che copre l’intera giornata”. Basti pensare che la sua Telelombardia è la capo-cordata del network di emittenti locali che mandano in onda Servizio Pubblico, il format multi-piattaforma di Michele Santoro: “Centinaia di migliaia di telespettatori vedono il programma sul canale 64. Qualora cambiassimo spazio ci vorrebbero anni per spiegare che si deve ri-sintonizzare il televisore (o il decoder, ndr) perché Telelombardia lì non c’è più”.

Le critiche dell’editore stanno facendo proseliti, dalle associazioni che raggruppano le televisioni commerciali e locali, come Frt e AerAnti Corallo, fino ai membri della commissione di Vigilanza sul servizio radiotelevisivo del Pd che hanno annunciato un’interrogazione per chiedere a Passera una modifica dei criteri.

Come? E’ ancora Sassano a indicare la via prendendo spunto dal meccanismo di assegnazione di quelle regioni passate al digitale terrestre dopo il 2010, quando si sapeva che la banda 61-69 doveva essere lasciata libera per le tlc. “In Toscana o in Liguria – spiega il professore – per assegnare le 18 frequenze disponili per le locali si è fatta una gara dove le emittenti migliori si sono prese gli spazi più competitivi”. E nelle aree del Paese già digitalizzate? “Si dovrebbe procedere con un’asta al ribasso, in modo da liberare almeno nove slot per poi procedere a una competizione nella quale le realtà più serie si possano aggiudicare gli spazi migliori”. Così facendo, secondo il professore, lo Stato risparmierebbe diverse decine di milioni di euro e introdurrebbe il criterio del merito per riassegnare una porzione di etere alternativa a quella venduta a Telecom e soci.

Se è vero che le frequenze sono un “bene dello Stato raro e prezioso che va attentamente ponderato”, come ha detto Passera quando ha dato il benservito al beauty contest e alle regalie per il duopolio Raiset, è altrettanto vero che l’annunciata rivoluzione delle antenne deve evitare di danneggiare quelle esperienze regionali che garantiscono rappresentanza locale e occupazione.
 
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La Maserati produrrà il suv a Detroit
Marchionne bocciato dal Wall Street Journal 

Nello stabilimento di Modena (per adesso) resta solo l'ammiraglia della Casa del Tridente: un modello uscito sette anni fa. Poco per continuare a dare lavoro a settecento dipendenti
“Una Maserati resta Maserati anche se è fabbricata a Detroit?” Se lo è chiesto il Wall Street Journal quando ancora la decisione di Marchionne di costruire fuori dall’Italia un suv col marchio del tridente era solo una voce di corridoio. Adesso che la notizia è ufficiale, la scelta del manager Fiat sta preoccupando molto di più, a cominciare dai sindacati, che denunciano “l’inesistenza di un piano di rilancio industriale che tuteli l’occupazione”. In gioco ci sono i 700 posti di lavoro legati allo storico marchio modenese di auto di lusso, già in bilico dopo la decisione di Fiat di produrre a Torino il cosiddetto Maseratino, semento meno costoso della casa. A Modena resterebbe praticamente lo stabilimento vuoto: solo la vecchia ammiraglia che è pur sempre eccellente, ma è uscita sette anni fa.

Ad attivarsi anche la politica emiliana-romagnola, che chiede alla Regione di incontrarsi col Ministro dello sviluppo economico, Corrado Passera. “Vogliamo chiarire il futuro dello stabilimento di Modena e scongiurare problemi occupazioni”, spiegano i consiglieri regionali del Pd Stefano Bonaccini, Palma Costi e il loro collega del Pdl Luciano Vecchi. Insomma, una mobilitazione bipartisan per salvare uno stabilimento che potrebbe essere messo in crisi proprio dalla decisione di Marchionne.

Il suv col marchio Maserati – il nome provvisorio è Kubang – sarà infatti costruito a partire dal 2013 nello stabilimento Jefferson North di Detroit e venduto negli Usa nel secondo semestre di quell’anno, per poi piano piano essere esportato in tutto il mondo. Una decisione che Marchionne ha giustificato con “la necessità di utilizzare la capacità produttiva degli impianti del gruppo ovunque essi siano, e in base alle esigenze di mercato”.

E allora sembra proprio che queste esigenze portino la produzione fuori da Modena e dall’Italia. A restare made in Italy saranno i motori, prodotti nello stabilimento Ferrari di Maranello, così come la progettazione che sarà gestita in tutta la sua componentistica – sospensioni, freni, sterzo ed elettronica – da ingegneri italiani. A lasciare le catene di montaggio modenesi sarà l’assemblaggio. Un colpo pesantissimo per i 700 lavoratori della Maserati che arriva dopo un’altra decisione aziendale presa pochi mesi fa, quella di fabbricare la nuova quattro porte in provincia di Torino e non più in Emilia-Romagna.

“Di questa storia sappiamo tutto, cosa sarà costruito negli Usa, cosa a Torino. Quello che non sappiamo è cosa produrrà lo stabilimento di Modena”. A parlare è Ferdinando Siena della Fiom-Cgil. La preoccupazione del sindacato è che la “produzione si spenga pian piano, senza annunci clamorosi che forse Marchionne giudica ormai controproducenti”. Il riferimento è alla chiusura di Termini Imerese, che per settimane ha tenuto banco su giornali e tv. Che la situazione sia allarmante è confermato anche dal piano industriale, latitante da ormai due anni nonostante le ripetute richieste di istituzioni e sindacati. “Passano i mesi – spiega Siena – e nulla è cambiato, del piano industriale non sappiamo niente, così come non sappiamo niente di possibili strategie di rilancio dello stabilimento”. La paura, conclude il sindacalista, è che «il 2012 non passerà indenne come è successo col 2011».

 

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